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Jancis Robinson, c'è bisogno di raccontare il Piemonte

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Jancis Robinson, photo from Facebook Jancis Robinson, photo from Facebook

La regina delle wine writer parla di Piemonte, vino italiano e nuove tendenze del mercato: «La curiosità dei consumatori aumenta, saremo in grado di soddisfarla?»


«Pensateci. Quand'è l'ultima volta che avete letto un bel libro, tradotto anche in inglese, appassionante e divertente sul Barolo? Quando? Sapete cosa vi dico: c'è un bisogno disperato di raccontare il Piemonte del vino».

Jancis Robinson è una perfetta dama inglese. Regina delle wine writer britanniche, Master of Wine, in fatto di vino è una delle consulenti personali della Regina Elisabetta II. Ha toni pacati, modi cortesi e gentili, humor sottile e mai fuori luogo. Ma quando esprime un parere è asciutta, diretta, mai oscura e, soprattutto, non accomodante: «Quando recensisco un vino, comunico sempre quello che penso. Non vado a vedere quello che hanno scritto gli altri e non riprendo neppure quello che già ho già detto in anni precedenti. Il vino è un essere vivo: cambia con il mutare del tempo: ogni bottiglia è semplicemente unica».

Sul Piemonte del vino ha idee altrettanto chiare. Servono unità, collaborazione e straordinarie capacità comunicative. Perché, se è vero che le colline sabaude rappresentano una realtà complessa e stratificata, è anche vero che «i nuovi mercati sono un po' annoiati e assuefatti dai classici vini francesi».


Mrs. Robinson, cosa le piace particolarmente della nostra Regione?

«Risponderò così. Quando mi chiedono una meta dove trascorre una vacanza enoturistica, io rispondo: "Le Langhe".

Perché?

«Perché questa terra non offre solo grandissimi vini, ma una cucina superlativa. Nonostante li conosca bene, i piatti piemontesi sono ancora in grado di stupirmi: sono stata al Ristorante Piazza Duomo di Alba e lo chef Crippa mi aperto gli occhi con le sue interpretazioni».

Ci sono altri luoghi che conserva nel cuore?

«Più che luoghi, direi tutto il paesaggio. Trovo che le colline piemontesi esprimano una perfetta armonia, una bellezza omogenea. Nel senso che è difficile trovare uno scorcio degradato, il ché fa del vostro territorio un set perfetto per le esplorazioni enoiche. Anche la vostra "dimensione" è adatta al turismo del vino. Piccole aziende a conduzione familiare, poche realtà industriali: un microcosmo da scoprire cantina per cantina».

Quando mi chiedono una meta dove trascorre una vacanza enoturistica, io rispondo: "Le Langhe"

Qual è la percezione dei vini piemontesi all'estero?

«Posso parlare delle differenze tra Usa e Regno Unito. Negli Stati Uniti i wine lover conoscono e stimano i vini italiani. Il Barolo è un vino largamente apprezzato, si cominciano a scoprire i produttori e i loro cru, si parla di Barolo con caratteristiche diverse, da zona a zona. I cittadini britannici, al contrario, conoscono meglio i vini francesi. Anche qui gli specialisti apprezzano le differenze tra i vini e il Barolo acquista sfumature e connotazioni. Ma sono ancora troppo pochi quelli che capiscono il vino nei dettagli. In generale, però, posso dire che i consumatori vogliono vini più "trasparenti", cioè legati al territorio e alle sue espressioni. Vini artigianali, non esclusive creature dei loro produttori».

A proposito di cru, non rischia di essere eccessivamente complicato, per uno straniero, capire le diverse indicazioni geografiche?

«Al contrario penso che la forza di un territorio risieda nella valorizzazione delle differenze. Parlando da idealista, sogno che in Piemonte i vini non seguano la tendenza alla generalizzazione, ma ci siano regole sempre più precise per identificare le loro caratteristiche. Ad esempio, trovo incoraggiante il fatto che i giovani siano incuriositi dal vino che non viene considerato solo una bevanda, ma un vero interesse. Questo indica che gli interessi dei consumatori stanno velocemente cambiando».

Come?

«La dominazione incontrastata delle grandi varietà è ormai finita. In tutto il mondo c'è un nuovo, grande entusiasmo per le varietà autoctone e rare. Anche i mercati asiatici, per la maggior parte, sono alla ricerca di qualcosa di alternativo, di gusti inediti. Da questo spunto nasce il mio libro dedicato alla varietà del mondo, Wine Grapes. Anche l'Italia dovrebbe trarne un vantaggio: il vostro Paese possiede il maggior numero di varietà al mondo, nel libro cito 377 vitigni autoctoni».

Ma non sempre riusciamo a comunicarle adeguatamente.

«L'Italia ha un handicap sui mercati internazionali, non ha un marketing nazionale a livello vinicolo, almeno da quando ho cominciato a scrivere di vini, nel 1975. Mi capita di notare come la promozione – nel Regno Unito ad esempio - avvenga per inviti occasionali, a breve raggio. I produttori vengono rappresentati per piccole aree o regioni: mostrano i loro vini, ma a volte appaiono annoiati, senza energia, come se fosse una routine o come se l'evento fosse calato dall'alto».

La dominazione incontrastata delle grandi varietà è ormai finita. In tutto il mondo c'è un nuovo, grande entusiasmo per le varietà autoctone e rare. Anche i mercati asiatici, per la maggior parte, sono alla ricerca di qualcosa di alternativo, di gusti inediti

Come se ne esce?

«L'iniziativa dovrebbe partire dai piani alti della politica, dai Ministeri, per dare unità al settore. Vi faccio un esempio: a Londra io non saprei a chi rivolgermi per la promozione del vino italiano in senso nazionale. E serve un'altra cosa...»

Quale?

«Una grande capacità narrativa. Come dicevo, è da molto che non leggo un bel libro sul Barolo, un libro appassionante. Ne è stato scritto uno sul Brunello (Brunello di Montalcino. Understanding and Appreciating One of Italy's Greatest Wines di Kerin O Kerin O'Keefe n.d.r.), ma non sul Re dei vini. Penso che sia arrivato il momento di scrivere un buon libro sul Barolo e sui vini italiani. Qui tutti in Italia conoscono la materia, ma all'estero c'è ancora molto da imparare. Non si può restare in casa, bisogna saper uscire».

Ultima modifica: Mercoledì, 02 Aprile 2014 10:29
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