Moscato d'Asti e Asti Docg, il lato dolce del Piemonte
- Scritto da Giancarlo Gariglio
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Moscato d'Asti e Asti: due facce della stessa medaglia d'oro
Nel mondo del vino si parla con disarmante ripetitività sempre e solo delle grandissime bottiglie, quelle in definitiva che fanno notizia. Sarebbe come se un giornalista che scrive di auto recensisse solo Lamborghini, Ferrari e Porsche. Il vino in realtà è un prodotto popolare, o comunque lo è stato fino a pochissimi anni fa. Questa sua caratteristica va non solo preservata, ma anche sottolineata e raccontata. Perché essere popolari non è per forza dispregiativo, anzi: il termine pop, nella sua valenza più nobile, è da apprezzare. Questa premessa per dire che il moscato è uno dei vitigni dal valore pop più alto del pianeta, tanto è vero che i rapper più famosi di New York gli hanno addirittura dedicato delle canzoni. Grazie alla sua vinificazione nascono dei vini dalla semplicità disarmante, ma dai profumi complessi e dal valore organolettico unico.
La sua terra d’elezione è il Piemonte e in particolare le tre province meridionali di questa regione. Un gruppo di 52 comuni che fanno parte del Cuneese, dell’Astigiano e dell’Alessandrino. Un territorio compatto, con l’esclusione di Serralunga d’Alba e di Santa Vittoria d’Alba che sono state inserite nel disciplinare di produzione (oltre cinque decenni fa) grazie alla presenza di due grandi aziende che risiedevano in quei Comuni, rispettivamente Fontanafredda e la Cinzano.
Il termine pop, nella sua valenza più nobile, è da apprezzare. Questa premessa per dire che il moscato è uno dei vitigni dal valore pop più alto del pianeta, tanto è vero che i rapper più famosi di New York gli hanno addirittura dedicato delle canzoni.
In Piemonte, dal vitigno moscato nascono due vini: il Moscato d’Asti e l’Asti, la versione spumante. Due tipologie assai differenti, non solo per il diverso tappo che chiude i due vini: il primo utilizza il cosiddetto “raso” e il secondo quello “a fungo” con la classica gabbietta che preserva le bollicine. Le differenze, tantissime, non si fermano di certo qui, nonostante i due vini rientrino entrambi nel medesimo disciplinare e abbiano ricevuto la Denominazione di Origine Controllata nel 1963 e la Docg nel 1993.
L’Asti è a tutti gli effetti uno spumante, realizzato utilizzando il metodo Charmat (o Martinotti, visto che fu proprio l’enologo piemontese a inventarlo, ma il francese fu più lesto a brevettare il sistema), meno dolce, un po’ più alcolico (sempre molto poco, al massimo 7 gradi…) e con un perlage più ricco. Lo stesso tessuto di aziende che si dedica alla produzione dell’uno piuttosto che dell’altro vino differisce in modo piuttosto chiaro. L’Asti è prodotto da un piccolo numero di cantine di grandi dimensioni, mentre il Moscato vede un numero di attori molto più ampio, anche grazie a una maggiore facilità tecnica di produzione. Diciamo che il secondo si avvicina molto di più al classico modello produttivo piemontese, fatto di piccole aziende di tipo familiare. Una differenza che ha profonde radici storiche. Andiamo quindi a ricordarle.
Il moscato, innanzitutto, si chiama così per via del suo sapore muschiato. La famiglia a cui appartiene è molto, molto ampia. Tantissimi sono i suoi fratelli e le sue sorelle. La grande variabilità genetica, che abbiamo scoperto solo grazie alle analisi del DNA, ci fa presupporre che questa varietà sia stata tra le prime a essere coltivata dall’uomo e che quindi abbia subito molte alterazioni genetiche proprio per la sua antichità. I Romani chiamavano il vitigno con il nome di uva apiana (la sua dolcezza attirava le api). Nel Medioevo la sua diffusione era grandissima e i primi documenti certi che ne attestano la presenza in Piemonte risalgono al Trecento. Proprio da allora si generano un gran numero di omonimie, tanto che gli studiosi di ampelografia hanno compiuto sforzi non indifferenti per riuscire a mettere ordine in questa famiglia così complicata. Alla fine sono stati individuati tre gruppi principali: il moscato bianco o di Canelli (di origine greca), il moscato giallo, di Sirio, o fior d’arancio (dalle radici siriane) e infine il moscato d’Alessandria o zibibbo (giunto dall’Egitto). Il primo, quello che interessa noi, ha una diffusione nel mondo di circa 45.000 ettari, di cui 10.000 in Piemonte.
l moscato è una varietà delicata e ha quindi bisogno di molte attenzioni nella sua coltivazione, ma i produttori possono e devono fare un passo avanti per tutelare la bellezza di queste colline che nulla hanno da invidiare dal punto di vista paesaggistico alle più celebri e vicine Langhe dei rossi più famosi.
Ma non sarebbe possibile capire oggi il fenomeno economico e sociale del vino a base di moscato senza fare anche solo un breve accenno a Carlo Gancia, che dopo un viaggio in Champagne, a metà Ottocento, capì le potenzialità del vitigno che cresceva sulle sue colline e cominciò a vinificarlo con il metodo champenois. La fermentazione in bottiglia con così tanti zuccheri residui si rivelava molto complicata e quindi le cantine iniziarono nel Novecento a sperimentare nuove tecniche di vinificazione in autoclave. Da allora l’Asti ha avuto uno sviluppo davvero molto importante, arrivando quasi a 100 milioni di bottiglie prodotte all’anno a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Un periodo d’oro, vissuto probabilmente con una scarsa programmazione strategica del futuro. La qualità dei vini ne ha risentito, presentando ai consumatori questa tipologia come eccessivamente “industrializzata”. Dal 2000 in poi abbiamo assistito, invece, al sorgere di un altro vero e proprio fenomeno, quello del Moscato d’Asti, il vino a tappo raso, che sta avendo in questi ultimi anni una diffusione e una fortuna davvero sorprendenti. I circa cento imbottigliatori di questa tipologia arrivano oggi a sfornare quasi quindici milioni di bottiglie, sopperendo quindi a un lieve calo del fratello maggiore, in modo che le colline di questo territorio continuano a vivere una storia di successi e di benessere economico grazie a questa varietà così pop e così gradevole.
Uno dei punti fondamentali da affrontare oggi è quello di diminuire la chimica impiegata dai viticoltori nel vigneto, soprattutto da parte di quelli che sono solamente produttori di uva e non la trasformano. Infatti, il moscato è una varietà delicata e ha quindi bisogno di molte attenzioni nella sua coltivazione, ma i produttori possono e devono fare un passo avanti per tutelare la bellezza di queste colline che nulla hanno da invidiare dal punto di vista paesaggistico alle più celebri e vicine Langhe dei vini rossi più famosi. Se si ha l’occasione di visitare i vigneti di Santo Stefano Belbo, di Canelli, di Moasca o di Mango, solo per citare alcuni dei comuni della zona di origine, ci si stupisce delle pendenze vertiginose dei versanti e ci si sorprende a constatare come qui il tessuto urbano abbia un impatto minimo e come il verde delle vigne e dei tanti boschi riposi la vista e lo spirito, premiando l’intraprendenza e la curiosità del turista.