Verduno, degustazioni tintometriche
- Scritto da Gabriele Pieroni
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- Pubblicato in La pancia del popolo
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Verduno è un pugno di colore verde tra Alba e Barolo. Un’infinita tavolozza di smeraldi che brilla sempre diversa al variare della luce, delle ore del giorno, dei movimenti che la strada ti costringe a fare per giungere sul bricco della collina, di ogni singolo sguardo dal suo belvedere inondato di affilati raggi di sole.
E in mezzo al verde c’è un altro verde, quello del cortile di Ca’ del Re, agriturismo nel centro storico di Verduno, elegante e spazioso, dove il cotto dialoga con le ombre del giardino, con i gerani viola e le pareti affrescate secondo lo stile berrutiano (leggasi Valerio Berruti, guru artistico della new wave albese).
Perché l’agriturismo in questione ha due fortune. La prima è quella di avere un cantiniere d’eccezione: l’azienda agricola Castello di Verduno, storica realtà del Barolo che, nel 1950, grazie agli sforzi del Commendatore Giovanni Battista Burlotto, riprese vita e vite, se ci è permesso il gioco di parole. La seconda è la simpatia e la disponibilità delle due sorelle Bianco, Marcella e Giovanna, che fanno gli onori di casa.
Mi capita di giungere a Ca’ del Re per la presentazione delle nuove annate della cantina in una giornata così afosa, ma così afosa, che sudano le pietre e i pampini sembrano piegarsi su se stessi per cercare una cifra di ombroso refrigerio. La presentazione è un informale degustazione accompagnata da un banco d’assaggio di piatti prodotti dallo stesso agriturismo: ci si serve da soli senza fretta, con la possibilità di meditare ciascun vino nella silenziosa canicola di questa giunonica giornata.
Forse il caldo, forse la luce, forse l’occhio non ancora abituato alla penombra, ma anche i vini del Castello m’appaiono come Verduno: brillanti di un colore spiritato, così vividi e presenti nel loro croma naturale da potersi sorseggiare dalle pupille, così pazzescamente iridati da essere quasi sfrontati, tintometricamente golosi.
Dopo qualche acciuga con granella di nocciola e un pezzo d’erborinato bagnato in una composta a base d’uva dolcetto (spettacolare!) mi accingo a dar conto delle degustazioni. Non procedo secondo un metodo, ma per stimolazione mnemonica, un parametro che fissa, per decantazione e selezione naturale, un vino nei meandri della memoria: unico parametro eticamente valido, ne consegue.
Ci sono dunque le memorie dei Barolo e dei Barbaresco per prime (Gabriella Burlotto, titolare dell’azienda, si è infatti unita a Franco Bianco di Barbaresco raggruppando sotto il Castello tutti i “nobili nebbioli” del circondario). E queste memorie si concentrano su tre etichette in particolare. Il Barbaresco Rabajà 2010 Riserva, i cui profumi esplodono nell’aria prima che il bicchiere giunga al naso. Fine e potente, morbido e deciso al contempo. Un vino dai tannini affascinanti e dalla personalità esuberante. Segue il Barolo Monvigliero 2010 Riserva, vertice della produzione, che con i Cannubi si gioca la poltrona di primus inter pares tra i cru del Re. La sua delicatezza è infinita alla faccia dei suoi 4 anni di rovere, il corpo importante e gli aromi più complessi del cubo di Rubik. Eppure, nella maestosità del tutto, questo vino si ricompone senza sforzo facendosi bere con una freschezza inimmaginabile. Inutile dire che, accompagnato agli erborinati, si tocca il Nirvana. Ma su tutti i “figli del nebbiolo” mi stupisce il Barbaresco base, 2011, semplicemente gustoso, semplicemente buono.
Passando alle signore, la Barbera d'Alba 2013 arriva direttamente dalle vasche d’acciaio. Il colore è stupefacente, viola brillante, così come il naso è fruttato, una conserva di more appena fatta, acido e zuccherino al punto giusto tanto che mi farebbe piacere berlo anche fresco, delizioso con la focaccia e il vitello tonnato. «Serba la tua purpurea Barbera», cantava Pascoli. Noi, al contrario, consigliamo invece di berla tutta d’un fiato.
Ma è quando si gioca sul “vitigno della casa” che la degustazione riesce a stupirmi e merita qualche parola in più. Sul banco ci sono infatti tre bottiglie dai nomi curiosi: la prima è etichettata Verduno Basadone (2013); la seconda Vino Bianco (proprio così!) Bellis Perennis (2013); la terza S-ciopet (dall’onomatopeico lemma piemontese che indica «il botto» e al contempo un fiore selvatico), che identifico senza difficoltà come un vino spumante.
Cominciamo dal Verduno (Basadone è il nome scelto dalla cantina), epiteto piuttosto insolito. Perché, sebbene indichi la Doc Verduno, ormai ampiamente riconosciuta, nessun produttore lo porta in etichetta, preferendo il più classico Verduno Pelaverga.
Errore di battitura? «Certo che no», spiega Mario Andrion, l’energico enologo del Castello, «ci siamo battuti perché si adottasse il solo nome Verduno: Pelaverga ovviamente, ma figlio ed espressione autentica del vino di qui, quello che cresce soltanto sulle colline dell’omonimo comune. Gli altri produttori non ci hanno seguito, noi insistiamo per il territorio: il Barolo non ha mica bisogno di scrivere “Nebbiolo” sull’etichetta!».
Nel solco della valorizzazione del terroir locale si consacra anche il più “anonimo”, «Vino Bianco» Bellis Perennis (nome scientifico della Margheritina prataiola). Anonimo soltanto perché non ha una denominazione specifica, essendo, con tutta probabilità, l’unico esperimento commercializzato nel suo genere. Centopercento Pelaverga, centopercento vinificato in bianco. Accade così che i profumi del Pelaverga, già caratteristici e particolari per natura, si innestino su di un corpo freschissimo dotato di un’acidità sferzante e un corpo limpido, in qualche modo avvolgente grazie ad una texture setosa. Profumi di pera si accompagnano ad una mineralità atipica per un vino delle Langhe e quella sapidità che potrebbe addirittura far pensare ad un Verdicchio.
«L'idea del Bellis Perennis nasce da un'esigenza praticissima», racconta Mario Andrion, «volevamo un bianco per ampliare la carta dell'agriturismo. Ma volevamo anche un vino che rispecchiasse la tradizione della nostra vinificazione, ancorata in modo particolare al territorio. Osservando la versatilità con cui il Pinot Nero viene utilizzato in Francia, abbiamo deciso di azzardare. Perché non lavorare su di una vinificazione in bianco del nostro cavallo di battaglia, il Pelaverga di Verduno?».
Gia, perché no? Nel 2006 il Castello parte con 600 bottiglie. Il risultato è incoraggiante e il vino ottenuto è tutt'ora un successo, una piccola perla che racconta una storia di coraggio e di rispetto per i vitigni autoctoni. Oggi se ne producono 4500 bottiglie. Il grande lavoro, su questo vino, avviene in pressatura: lentissima, quasi estenuante, il tutto per estrarre i sentori del Pelaverga e non il colore. Niente chiarifiche con carbone o filtrazioni spinte, il Perennis è un vino semplice e altamente beverino, che merita di essere apprezzato durante tutto il pasto, senza residuo zuccherino perché non costringa a troppe riflessioni.
Riflessioni che invece suscita S-ciopet , altra chicca della Cantina del Castello. Qui siamo su di un Brut Metodo Calssico millesimato (2011) davvero singolare: 100 per cento Pelaverga, 20 mesi sui lieviti, un colore tanto particolare che, confidenzialmente, i suoi creatori lo battezzarono "Arancin" (vedasi la foto).
Difficile definirlo, se non elogiandone il carattere scalpitante, un vino che riesce a "mascherare" la complessità del metodo classico con una ventata di furore giovanile, che esalta la sapidità e i profumi fruttati piuttosto che i sentori tipici della rifermentazione. Assolutamente da provare.
Gabriele Pieroni
Scrive di cultura e cibo, meglio se cibo culturale o cultura edibile. Adora il Kebab (ebbene sì!) nella sue innumerevoli varianti. Per lui il vino è prima di tutto un alimento, e come tale deve essere beverino, fresco, piacevole e soprattutto, sano. Chi lo conosce sostiene che vorrebbe essere in grado di scrivere una Grande Narrazione. Per ora si accontenta di diventare un buon giornalista, un ottimo gourmet e un piacevole commensale. Per Wine Pass cura i contenuti del web e collabora alla stesura del Magazine cartaceo. Seguimi su Twitter: @gapieron
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